A, B, C, D… ETICA

martini

A proposito di politica e responsabilità sociale ci sembra quanto mai opportuno riportare la sintesi del pensiero del Cardinal Carlo Maria Martini, che proprio sui temi del rapporto tra etica e politica ha scritto arcivescovo cattolico, teologo, biblista, docente e rettore italiano. Esegeta oltre che biblista, è stato arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002. Oltre ad essere stato un uomo di grande cultura teologica fu anche uomo del dialogo tra le religioni, a cominciare dall’ebraismo, i cui fedeli amava definire “fratelli maggiori”. Fu soprannominato “cardinale del dialogo” e proprio sui temi del rapporto tra etica e politica ha prodotto un breve ma illuminante testo (edito nel 1993 da piemme editore), di cui riportiamo una sintesi. Lo riteniamo un testo di riferimento, che, sebbene scritto nel 1993, rappresenta, a tutt’oggi,un bussola per non smarrirsi nella selva degli orientamenti politici, sempre più privi di radicamento. Provare a fare chiarezza sule radici, appunto, dei termini propri della politica, ci è sembrato doveroso in questo periodo della nostra vita politica anche per evitare una sbrigativa, per quanto comprensibile, disaffezione a quella che dovrebbe essere la più alta espressione di servizio alla comunità. E che rimane comunque una dimensione imprescindibile per la vita sociale. Riportiamo, di seguito un estratto del testo per chiarire il significato alcune parole-chiave allorché bisogna dare giudizi corretti su comportamenti amministrativi, sociali, politici, quando cioè sono in gioco le nostre responsabilità verso la collettività.

Oggi si parla molto di etica, di etica pubblica; ma gli storici dicono che quanto più una società è carente di moralità pubblica, tanto più se ne parla. Non a caso le grandi epoche di riflessione sull’etica sono state le grandi epoche di transizione, in cui si verificavano pure molti episodi di corruzione. Durante i passaggi delle civiltà, mentre venivano meno alcune certezze, la gente si smarriva e ciascuno faceva un po’ ciò che voleva, difendendo gli interessi privati o di gruppo fino al crimine. In tempi simili, si ritorna sull’etica pubblica proprio per trovare delle norme a cui ispirare il proprio comportamento civile e il costume sociale. Oggi dunque si parla molto di queste cose e vengono di moda vocaboli di cui non si sa bene il significato”
E COME ETICA E’ grande vanto dell’umanità essere giunta a intuire l’esistenza di comportamenti che sono al di sopra del piacere, del guadagno, dell’interesse; comportamenti che non hanno prezzo perchè sono al di là di ogni apprezzamento terreno. Qui va richiamato con forza quanto accennavo alla fine della conversazione precedente, sullo spirito, sulla mentalità con cui bisogna trattare dell’etica: uno spirito di ottimismo. E mi spiego. Spesso, quando si parla di determinati comportamenti si assume un tono arcigno se si vuole sottolineare la serietà, oppure un tono lamentoso se si vuole deprecare la loro inosservanza. I moralisti sono sempre stati ritenuti uomini queruli, lamentosi, pronti a rimproverare, a deprecare, a denunciare il male presente nel mondo, o comunque uomini e donne severi, inflessibili. Un po’ è giusto che sia così. Tuttavia ritengo che l’etica debba essere soprattutto un luogo in cui la gente viene incoraggiata, animata, confortata. La grande parola dell’etica è: tu puoi fare di più, ti è possibile fare meglio, sei chiamato a qualcosa di più bello nella vita, essere onesti è possibile ed è un’ avventura straordinaria dello spirito. Proprio di tale spirito di ottimismo abbiamo bisogno per non perderci in lamentazioni sterili e obbedire al precetto fondamentale dell’etica: cerca di essere più autenticamente te stesso, di essere più vero, più libero, più responsabile.
D come DIRITTO Mentre l’etica è la dottrina che si interessa degli atteggiamenti di valore dell’uomo, il DIRITTO è l’insieme delle norme positive che le società si danno per rispondere a questi imperativi profondi e tradurli nella pratica quotidiana. Da solo, però, il diritto non garantisce un’etica pubblica: esso è un insieme di norme esterne che suppongono un consenso fondamentale dei cittadini sui grandi atteggiamenti che regolano i rapporti tra persone. Quando incomincia la discordia sugli atteggiamenti di fondo, ad esempio sul rispetto della vita, una società è minacciata di disgregazione e, alla lunga, non riuscirà più a darsi norme di diritto capaci di assicurare il rispetto di tutti. Vediamo allora la distinzione e il reciproco rapporto tra DIRITTO e MORALE.
M come MORALE La morale, in questo contesto, va intesa come la forma buona del rapporto con il mio fratello, con colui che desidero riconoscere mio prossimo. Il diritto si accontenta di dire: rispetta l’altro, anche l’estraneo, promuovi il bene comune o, almeno, non danneggiarlo. La morale, invece, dice: fatti prossimo, considera ciascuno come membro della tua famiglia, per quanto ti è possibile. Il primo precetto della morale è indicato nella parabola del buon samaritano che scende da cavallo per soccorrere il ferito di un’altra razza, che trova sulla strada, e provvede a lui per tutto. La morale, quindi, chiede di fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi. Diritto e morale non si contrastano, ma si alleano per creare una società non soltanto vivibile, bensì buona e fraterna. Questo è l’ideale di una comunità a misura di persona umana, verso cui ci spingono concordemente morale e diritto. E’ l’ideale che nasce da un credo religioso a forte contenuto etico, come quello proprio della tradizione ebraica e cristiana. Ecco perche un Vescovo può parlare di questi temi.
O come ONESTA’ Oggi si parla molto di onestà, soprattutto nei comportamenti pubblici: si invocano politici onesti, amministratori onesti. Che cosa significa questa parola? è davvero possibile essere onesti fino in fondo nella vita pubblica? quali condizioni sono prerequisite? Cominciamo con il significato del vocabolo. ONESTO deriva da “onore”, e onore è sia la buona reputazione di cui si gode all’interno di un gruppo sociale, sia l’intima consapevolezza della propria dignità. Chi agisce conformemente a tale consapevolezza, evita di macchiare la propria coscienza e, in una società buona, è stimato, e chiamato appunto “uomo onesto”. L’importanza del vocabolo appare pure dall’abuso che se ne fa: infatti, “uomo d’onore” può venire a significare, a un certo punto, uno che si regola secondo le norme di una società delinquenziale, che non “sgarra” rispetto alle regole interne del suo gruppo, e però non tiene affatto in conto l’onore nel senso vero del termine, cioè la conformità alla propria coscienza, l’agire morale in senso pieno. Essere onesto vuol dire dunque rispettare i dettami della coscienza e le prescrizioni della legge secondo tutto al loro ambito. Ancora un’osservazione: il termine latino “honestas” significa anche “bellezza”. A esso sottostà l’intuizione che l’agire morale è una cosa bella da vivere, una cosa che da un profondo godimento allo spirito, che rende lieta e gioiosa la vita di una società. E’ sufficiente, per essere onesti, essere a posto con le norme positive? Certamente è già molto essere a posto con le norme positive, ma c’è una parola del vangelo che ci ammonisce: Guai a chi paga la decima sulla menta e sul cumino e trascura le prescrizioni più gravi della legge, cioè la giustizia, la misericordia, la fedeltà. C’è, infine, una grave domanda che le società moderne devono affrontare: esistono leggi, come quella del finanziamento dei partiti, congegnate in modo da rendere così difficile la loro osservanza pratica che le stesse persone oneste e prive di interessi propri sono indotte a violarle? Mi limito a porre la domanda; uno dei nodi della riforma della politica e dei partiti è appunto di porre regole legali che prevengano comportamenti illegali o che comunque non li favoriscano, permettendo davvero a tutti i cittadini onesti di partecipare con serenità al governo della cosa pubblica. Si può essere onesti sempre? Nella società attuale ci sono due possibilità di porsi di fronte al dilagare della corruzione. La prima è di accettare che una società non possa essere onesta e quindi sia in un continuo processo di degrado, irreversibile. In tal caso, ciascuno si rassegna, si difende come può e la speranza è perduta. La seconda, invece, è di sperare che una società possa divenire migliore di quanto non lo sia ora. Tale speranza deve essere ampia, non limitata

Qual è – si potrebbe domandare – il modo sbagliato di affrontare la società complessa? Quello di dare il via a un sospetto generalizzato, leggendo dietro a ogni espressione normativa un po’ difficile, o a ogni cifra di bilancio non evidente, un’intenzione perversa, la voglia di nascondere chissà che cosa. Ma una società non può fondarsi sul sospetto. Deve essere cauta, guardinga, vigilante, deve poter verificare tutto con attenzione; ma se manca un minimo di fiducia e si sospetta, per principio, di tutto e di tutti, i rapporti sociali finiscono col diventare estenuanti e si logorano presto. Prima del sospetto, o addirittura dell’accusa infondata, occorre dunque un’interrogazione onesta, occorre il coraggio di chiedere le necessarie spiegazioni, di dire a un politico, a un pubblico amministratore, al legislatore: spiegati meglio, dimmi che cosa intendi con la tale espressione, chiariscimi le tue intenzioni. C’è per una radice più profonda della trasparenza di coloro che hanno responsabilità, ed è sottolineata dalla frase evangelica: Chi perde la sua vita la troverà. Se una persona cerca solo e sempre di salvare se stessa e di giustificare se stessa, darà l’impressione, ancora una volta, di volere a ogni costo i propri interessi e di avere qualcosa da nascondere. Chi invece ama veramente il suo prossimo come se stesso, dichiara con tutti i suoi atti di non avere interessi personali da nascondere, ma di mettere al di sopra di tutto il bene comune a cui vuole sinceramente servire. Quando noi incontriamo gente così, i sospetti si dileguano e fiorisce quella fiducia senza la quale nessuna buona amministrazione e nessun buon governo sono possibili. Possiamo concludere dicendo che la trasparenza è possibile quando si parte da una sincera buona volontà di essere onesti e di servire davvero gli altri.
S come SINCERITA’ E’ sincero ciò che è puro, schietto, non adulterato. Etimologicamente, il vocabolo viene forse da una radice che significa “crescere”: una cosa cresciuta da una sola ascendenza, che ha un’origine subito e tuttavia è solo su di essa che si costruisce una società più trasparente, nella quale le persone oneste dissipano ogni sospetto sul loro operato sociale e civile, e acquistano la fiducia necessaria per vivere nella famiglia, nel gruppo, nella società nazionale e internazionale. Di nuovo concludo con una nota di ottimismo: la sincerità ricostruisce ciò che comportamenti oscuri hanno tentato di distruggere.
L come LEALTA’ Oggi parliamo di LEALTA’, più precisamente di lealtà privata e di lealtà pubblica nel loro reciproco rapporto. Il termine “lealtà” è molto usato nei rapporti privati; leale è una persona di cui ci si può fidare, che non mente, una persona sulla cui parola si può contare, con la quale si entra volentieri in rapporto di amicizia o di lavoro. Al contrario, quando una persona si è rivelata “sleale”, nessuno più si sente di allacciare rapporti di amicizia o di commercio o di lavoro. Eppure questo termine così usato nelle relazioni private ha un’origine pubblica. Etimologicamente viene da “legale”, parola che indica il rispetto nei confronti della legge. Nel medioevo lealtà indicava il rapporto di fedeltà tra un vassallo di ordine inferiore e un vassallo di ordine superiore; si riferiva perciò ai rapporti pubblici nella società. Attualmente questo sostantivo è usato per indicare le più alte qualità morali del rapporto tra persone, e comprende pure gli atteggiamenti di sincerità e onestà. Tuttavia vorrei sottolineare particolarmente la figura pubblica più vasta della lealtà, cioè il comportamento proprio del cittadino che è leale verso le istituzioni. La lealtà privata è indubbiamente importante, ma al limite potrebbe essere delinquenziale (ad esempio, quando una persona è fedele al proprio gruppo che si pone contro altri). Per essere vera, la lealtà deve estendersi al complesso delle relazioni che fondano la collettività. E dunque lealtà privata e lealtà pubblica si ospitano a vicenda, devono abitare l’una nell’altra; la lealtà, se è tale, è un atteggiamento distintivo di tutto il modo di comportarsi sia nella sfera privata sia in quella
pubblica. Solo così potremo provvedere a ciò che chiamiamo il bene comune.
B come BENE COMUNE L’espressione BENE COMUNE è piuttosto difficile da definire, anche se non sembra. Essa e composta di due parole: bene e comune. Bene significa il complesso delle cose desiderate che vorremmo augurare a noi e alle persone cui siamo legati. Comune deriva probabilmente dal latino “cummunus” che vuol dire compito fatto insieme, adempiuto insieme. Tuttavia questo non basta per spiegare il senso dei due termini congiunti – bene comune -, soprattutto come esso è inteso nella tradizione cristiana e, specialmente, nel Concilio Vaticano II. Cominciamo col dire che cosa non è bene comune: non è semplicemente un patrimonio comune, qualcosa posseduta da più persone (ad esempio un campo o un bosco il cui proprietario è un gruppo, una comunità); non è un insieme di beni sociali (come la tradizione tecnologica o un’alta tradizione politica di una società), pur se fanno parte del bene comune; non è neppure l’insieme dei diritti dell’uomo. Tutte queste realtà appartengono al bene comune, ma non lo costituiscono. Che cos’e allora il bene comune? E’ l’insieme delle condizioni di vita di una società, che favoriscono il benessere, il progresso umano di tutti i cittadini. Ad esempio, bene comune è la democrazia; bene comune sono tutte quelle condizioni che promuovono il progresso culturale, spirituale, morale, economico di tutti, nessuno escluso. Ci accorgiamo allora quanto sia importante e prezioso questo “bene comune”. In qualche maniera è previo al costituirsi di una società (perché esso consiste nella realtà dei rapporti ben stabiliti tra le persone), e nello stesso tempo deve risultare dall’impegno di tutti e non solo di alcuni. Sul “bene comune” sono dunque chiamate a vegliare le istituzioni – la famiglia, la scuola,tutte le realtà sociali – ; ciascuno di noi e noi tutti insieme siamo responsabili di esso.
R come “RESPONSABILITA'” La parola deriva da “rispondere” che ha nel suo corrispondente latino “respondere” il verbo “spondere” che significa promettere, impegnarsi. Nella parola “rispondere” è quindi incluso un forte senso di impegno. Di solito, però, noi la usiamo in un’accezione più generale, per indicare cioè che si replica ad una comunicazione altrui. Ma il senso di “impegno” è puntualmente ripreso nel termine responsabile; è responsabile chi risponde delle proprie azioni e questa qualità è da tutti molto apprezzata, tanto è vero che nessuno oserebbe dire di se stesso: io sono un irresponsabile. E tuttavia le prime parole pronunciate dall’uomo, secondo la Bibbia, sono espressione di “irresponsabilità”. La prima parola di Adamo è: “Ho avuto paura”; quella di Caino è: “Sono forse custode di mio fratello?, sono forse suo responsabile?”. Questo fatto ci induce a pensare. Torniamo al Principio “responsabilità”. Hans Jonas, nel suo famoso libro che porta appunto questo titolo, spiega come noi siamo responsabili anche delle conseguenze più lontane dei nostri atti, soprattutto in relazione agli interventi tecnologici sull’ambiente. E siamo quindi responsabili a vasto raggio di ciò che facciamo attraverso la tecnologia; siamo responsabili del futuro, delle future generazioni. Possiamo dire che a una maggiore tecnologia corrisponde una maggiore responsabilità, e noi ci abituiamo lentamente e a fatica a questo fatto. Per noi più tecnologia significa più comodità, e non vorremmo significasse più responsabilità.
E e P come ETICA E POLITICA Abbiamo detto che il bene comune è la totalità delle condizioni che permettono il progresso di tutti i cittadini. Ora, parlando della politica diciamo che con questo termine intendiamo quella forma dell’are umano che ha come fine proprio il bene comune. Appunto da qui deriva il fatto che al “bene comune” deve pensare ogni cittadino – non solo chi è impegnato in politica – , secondo il principio della “partecipazione democratica”. Etimologicamente il sostantivo “politica” viene dal greco polis che significa “città”. E il termine politeia, derivato da polis “, indica: – sia la cittadinanza, l’essere membro di una città, – sia la partecipazione al governo della città. Le due realtà sono inseparabili. Lo stesso san Paolo, nelle sue Lettere, usa la parola politeuma(che ha la stessa radice) quando afferma che la cittadinanza del cristiano è nei cieli, si allarga cioè dalla terra alla cittadinanza eterna. Se dunque la politica è l’arte del governo della città e insieme la capacità di produrre le condizioni del bene comune di essa, qual è il suo rapporto con l’etica? Un rapporto strettissimo, perchè l’etica – e l’abbiamo visto – ha attinenza con i valori sommamente degni dell’uomo, e la politica ha come fine la creazione del progresso umano della città. Non si può mai separare l’etica dalla politica. Qualcuno potrebbe obiettare che talora si intende per politica l’arte della mediazione tra opposti interessi; di fatto avviene che in politica si debba mediare. Tuttavia la domanda fondamentale è la seguente: – la politica ha o non ha un fine? ha o non ha una speranza? Essa appare per la prima volta nell’opera Il Principe, di Niccolò Machiavelli (quindi nel 1513), e da allora ha avuto grande parte nella filosofia pubblica. Tante discussioni, infatti, hanno avuto luogo attorno a tale concetto. Per Machiavelli “ragione di Stato” significa che, in ragione del diritto assoluto alla propria sopravvivenza e alla propria stabilita, lo Stato potrebbe compiere azioni vietate al semplice cittadino, azioni in sé immorali. Da qui è facile il passo alle più generali ragioni della politica, che permetterebbero al politico di compiere azioni non lecite all’uomo onesto. Per questo affermiamo che non si ha, in senso proprio, né “ragione di Stato ” e nemmeno “ragioni della politica”. Ed è proprio qui che emerge una parola oggi in uso: obiezione di coscienza. Obiezione di coscienza significa che nessuno, neppure lo Stato, può chiedere di andare contro la propria coscienza. Se ciò avvenisse, allora si deve obiettare, si deve cioè (nel senso etimologico della parola) “gettarsi contro”, addurre argomenti e comportamenti contrari.
C come COSCIENZA La parola COSCIENZA, su cui oggi ci intratteniamo, è probabilmente una delle più difficili del vocabolario dell’etica. Tuttavia è una parola portante, fondamentale, formidabile. Niente infatti si può opporre alla coscienza. Ma che cos’è allora la “coscienza”? Ciascuno pensa di sapere, ciascuno sente di avere dentro di sé qualcosa che può chiamare con questo nome. “Coscienza” deriva dal termine “conscio”:è conscio chi “sa con se stesso”,chi si rende conto, che è consapevole,e possiamo anche dire chi è vigile, sveglio, presente a se stesso. Vediamo dunque i diversi significati di “coscienza”. Anzitutto c’è la coscienza sensoriale, che è la capacità di rendersi conto di esistere (quindi che si sta vedendo, parlando, ascoltando, gustando, toccando, operando). Più oltre c’è la coscienza di sapere, o coscienza intellettuale, che risponde alla domanda: che cosa so veramente? so di sapere? Più oltre ancora, c’è la coscienza morale che è la capacità di valutarsi nell’agire morale, ossia di sapere se le mie azioni sono degne o sono indegne. Il secondo e il terzo aspetto della coscienza quella intellettuale o critica e quella morale sono pure le radici della libertà, anzi praticamente sia nei rapporti sociali che in quelli pubblici. E la Bibbia che cosa intende per giustizia? Certamente quello di cui abbiamo detto fin qui, ma anche qualcosa di più. Quando, ad esempio, parla della giustizia di Dio, Paolo allude alla qualità per cui Dio salva tutti gli uomini, anche se indegni. Dunque, la giustizia non è solo la virtù che conserva i rapporti giusti, ma è un valore costruttivo, che crea dignità e, nella nostra tradizione, non va mai disgiunta dall’amore. Giustizia e insieme amore sono realtà necessarie per la felicità dell’uomo.
M e F come MITEZZA E FORZA Concludiamo la nostra avventura nel vocabolario dell’etica con una domanda: Vanno d’accordo mitezza e forza nella vita pubblica? Tale domanda potrebbe apparire estranea al nostro percorso; in realtà sta al cuore di tutto quanto abbiamo detto fino ad ora. Vorrei dunque tradurla in altro modo: possibile vivere secondo le beatitudini evangeliche della mitezza, del perdono, della misericordia, della povertà, e promuovere insieme efficacemente una vita sociale, produttiva, economica, politica? è possibile applicare l’etica evangelica nella politica? E’ una di quelle domande che fanno fermentare l’intelligenza umana, e costituisce una continua sfida per chi voglia unire politica e umanità. Non intendo dare una risposta, ma semplicemente esprimere tre principi: I. – Non esiste per la nostra domanda una soluzione facile. Tutte le soluzioni trovate a tavolino, tutte le conciliazioni puramente verbali o ideologiche hanno deluso e deludono nella pratica. – Questa domanda non rappresenta un dilemma, non si tratta cioè di dire: o beatitudini evangeliche o efficacia politica. Rappresenta piuttosto una mutua fermentazione, perché le beatitudini evangeliche devono fermentare l’efficacia della vita sociale, economica e politica. – Lasciamoci quindi stimolare da questo lievito profondo che le beatitudini evangeliche hanno introdotto nella vita dell’ umanità. La sintesi non è astratta, bensì è fatta nel cuore e nella vita;è la grande speranza che la vicenda dell’uomo non sia qualcosa di piatto, destinato a ripetersi con i suoi mali e i suoi errori, ma sia chiamata a trascendere se stessa verso qualcosa di più alto. Siamo così giunti alla conclusione del viaggio nel vocabolario dell’etica pubblica. Non so se vi siete annoiati o divertiti. Personalmente mi sono piuttosto divertito, perchè ho avuto modo di sfogliare tanti vocabolari e di comprendere meglio il rapporto tra i vocabolari umani e la Bibbia. La Bibbia è quel luogo in cui le parole di ogni vocabolario umano vanno al di la di se stesse, e anche questa è una grande avventura dello spirito.
CONCLUSIONE: LO STILE DEL SERVIZIO E permettetemi, attraverso questa Scuola, di rivolgere un appello alla coscienza di tutti i cristiani, affinché sappiano diventare attivi protagonisti dell’attuale fase storica portando il loro contributo di cittadini e di credenti alla costruzione di una città dell’uomo a misura di uomo. In particolare rinnovo, ai cristiani laici impegnati in politica e a quanti si stanno preparando nella Scuola, l’invito a vivere in spirito di autentica carità la loro esperienza, anteponendo la ricerca del bene comune e la centralità dell’uomo a qualsiasi interesse personale e del proprio gruppo di appartenenza. Sia il servizio lo stile concreto che manifesta pubblicamente una vita politica vissuta alla luce della carità, cioè una vita capace della più splendida gratuità nella dedizione e della più umile saggezza nel saper porre, quando è necessario, un limite al proprio impegno, alla propria fatica, alla propria militanza politica; occorre essere liberi interiormente, vivere quel distacco che indica lo stile del servizio, e non del potere a ogni costo.

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